“Il prodotto sei tu”, dall’Ottocento in poi

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7 min readMar 1, 2021

Di come sono quasi duecento anni che consumiamo contenuti culturali finanziati in gran parte dalla pubblicità

La stampante a vapore è una novità dirompente

Per quanto possa suonare strano che ciò che oggi ci sembra così dirompente abbia dei precedenti, il modello di business “usami gratis e beccati la pubblicità” delle piattaforme alla Facebook e dei media online ha quasi duecento anni.

Nel libro “Rivoluzioni nella comunicazione”, di Bill Kovarik, manuale di riferimento per la storia della comunicazione da Gutenberg a Google, l’autore parla in più passaggi dell’impatto della macchina da stampa a vapore sull’aumento della diffusione dei giornali e successivamente sulla democratizzazione dell’informazione.

La nuova stampante a vapore, utilizzata per la prima volta nel 1814 dal Times di Londra, vanta un’efficienza di quattro volte superiore rispetto a quella della stampa a torchio. Questo permette agli editori di superare il limite imposto dalla tecnologia precedente e, in un primo momento, di incrementare la capacità di stampa oraria da 250 pagine su un lato con tre operatori alla macchina, a 1.100 pagine fronte-retro con sei operatori (il numero salirà a 4.000 pagine fronte-retro nel giro di pochi anni).

L’improvviso e drastico aumento di efficienza introdotto dalla nuova macchina e la conseguente riduzione dei costi portano con sé una grande opportunità: espandere la diffusione dei giornali a nuovi segmenti di pubblico fino ad allora esclusi dal mercato. Questo non sarà possibile in Inghilterra e nel resto d’Europa fino alla metà dell’Ottocento a causa di una tassazione sfavorevole, mentre negli Stati Uniti, dove il mercato dell’editoria non è altrettanto regolato, l’innovazione tecnologica può dispiegare interamente il suo impatto sul settore fin dal 1830.

Gli imprenditori americani che sanno interpretare le nuove condizioni tecniche (la diminuzione del costo di produzione dei giornali) e sociali (l’affioramento di una nuova platea di lettori interessata a leggerli) sfruttandone le potenzialità lanciano nuove pubblicazioni al prezzo stracciato di un centesimo, il penny che avrebbe dato il nome alla neonata penny press.

I giornali diventano mainstream

Ed eccoci al punto: il penny non copre i costi di produzione e distribuzione, che però vengono più che compensati dalla raccolta pubblicitaria. L’ampliamento della base lettori dovuto in gran parte al prezzo ribassato infatti fa sì che gli annunci pubblicitari possano essere venduti in maggior numero e a un prezzo maggiore: rincaro giustificato dal fatto che più persone avrebbero letto il giornale, garantendo più “impressioni” per ogni annuncio e aumentando così, almeno in teoria, il ritorno sulla spesa in pubblicità.

Possiamo quindi dire che inizia qui il rapporto di reciproca dipendenza tra chi produce contenuti e chi produce beni e servizi, con la conseguente corsa degli editori a generare pubblicazioni che attraggano un numero sempre maggiore di lettori per favorire la raccolta pubblicitaria.

Gli imprenditori editoriali della penny press scommettono sul nuovo segmento, distante dalle élite cui erano rivolti i giornali tradizionali, e inaugurano un nuovo taglio spesso ricco di articoli volti a intrattenere, scandalizzare e affascinare con “truffe pittoresche, editoriali caustici, scandali sorprendenti e crimini [raccontati] fin nel più torbido dettaglio”, citando Kovarik. Sarebbe ingiusto dire che la penny press abbia portato solo a un abbassamento del livello culturale, ma è innegabile che la pressione per l’aumento delle vendite abbia rivoluzionato sia la scelta dei contenuti giornalistici sia la loro presentazione.

Il modello penny press riscuote talmente tanto successo che viene riprodotto successivamente nel Regno Unito, in Francia (dove inaugura il romanzo a puntate), in Germania e nel resto d’Europa, e in seguito da tutti gli altri mezzi di comunicazione di massa: prima in radio, poi in televisione e infine su Internet.

La radio e il “chiacchiericcio commerciale”

Nel 1914 la radio è ancora prevalentemente utilizzata per comunicazioni di emergenza in mare, ma questa situazione è destinata a cambiare drasticamente nel giro di pochi anni. Leggenda vuole che David Sarnoff, allora un impiegato dell’azienda americana Marconi e divenuto poi una figura di rilievo nel campo della comunicazione del ventesimo secolo, abbia scritto a Guglielmo Marconi stesso il seguente messaggio: “Ho in mente un piano di sviluppo che farebbe della radio una “apparecchiatura domestica”, nello stesso senso del pianoforte o del fonografo. L’idea è di portare la musica nelle case senza fili.”

Sarnoff avrebbe poi proseguito dicendo che il nuovo sistema sarebbe stato finanziato dalla pubblicità, piuttosto che da abbonamenti o sussidi governativi.

La prima guerra mondiale frena lo sviluppo dell’idea di Sarnoff, che però riprende a tutta forza dal 1919 in poi: la Marconi produce 200.000 radio a valvole al mese nel 1922 e arriva alla incredibile quantità di 125 milioni al mese nel 1930.

Il mezzo radiofonico suscita importanti dibattiti tra chi sostiene che il canale debba essere sfruttato per fini educativi e per diffondere cultura di alto livello, tra cui lo stesso Sarnoff — cosa che per qualche anno avviene — e chi invece dà la precedenza all’enorme opportunità commerciale offerta dalla radio.

Un esponente della prima fazione, in quanto fermo sostenitore di una radio pubblica e dai contenuti culturalmente elevati, è Herbert Hoover, capo del dipartimento del commercio degli Stati Uniti e successivamente presidente USA.

Nel 1922, durante una delle conferenze radio da lui organizzate per incoraggiare un consenso sul tema delle trasmissioni radio interviene dicendo: “[…] diventa di fondamentale interesse pubblico definire chi trasmetterà, in che occasione e con che tipo di materiale. Non possiamo permettere che una così grande possibilità di servizio anneghi nel chiacchiericcio commerciale”.

La sua visione non prende piede e negli Stati Uniti si afferma una radio prevalentemente commerciale, con messaggi pubblicitari che inseguono contenuti capaci di interessare un target di riferimento e viceversa.

Nella visione pragmatica di Richard Sarnoff, bisnipote del già citato David Sarnoff, “la radio e la televisione sono semplicemente troppo efficaci nel consegnare spettatori ai pubblicitari. Il commercio è quel che è, e alla fine ti concentri su quello che ti riesce bene, lo massimizzi ed è questo che finisce per arricchire i tuoi azionisti”.

Il consumatore consumato

A proposito di consegnare spettatori ai pubblicitari:

“La televisione commerciale produce 20 milioni di persone al minuto. Nella televisione commerciale lo spettatore paga per il privilegio di essere venduto. È il consumatore ad essere consumato. Sei tu il prodotto della televisione. Sei consegnato all’inserzionista che è il cliente. È lui che ti consuma.”

Nel marzo del 1973 gli artisti americani Richard Serra e Carlota Fay Schoolman acquistano una finestra di sette minuti sul canale televisivo pubblico WNET per trasmettere il cortometraggio “Television delivers people”.

Un video spartano composto da un testo bianco che scorre su uno sfondo blu, accompagnato da una colonna sonora gradevolmente generica, enuncia la visione degli artisti, che identificano la vera ragione d’essere della televisione nella trasmissione di spot pubblicitari.

Senz’altro qualcuno avrà usato un’espressione simile a “se non paghi per il servizio il prodotto sei tu” anche in riferimento a penny press e radio, e chissà quante volte prima; con una qualche certezza possiamo solo dire che la frase, entrata in voga negli ultimi tempi in riferimento alle piattaforme Internet, è vecchia di almeno cinquant’anni.

Shoshana Zuboff, autrice del libro “Il capitalismo della sorveglianza” (2020), va oltre il concetto di prodotto e afferma che agli occhi delle piattaforme digitali che utilizziamo giornalmente siamo la materia prima necessaria per fabbricare quello che è il vero prodotto, cioè previsioni sul nostro comportamento d’acquisto futuro, naturalmente da vendere agli inserzionisti.
Il paragone fatto da Zuboff è in effetti più accurato. In fondo, come diversi giornalisti investigativi hanno già dimostrato, i nostri dati personali valgono davvero poco a livello individuale, proprio come gli ingredienti utilizzati per preparare una torta di pasticceria hanno un costo minimo rispetto al prodotto finito.

L’advertising è davvero “il peccato originale di Internet”?

Ethan Zuckerman, famigerato inventore del pop-up e pentito illustre di Silicon Valley, ora direttore del Center for Civic Media del Massachusetts Institute for Technology (MIT), scrive nel 2014 per l’Atlantic un articolo molto interessante e chiacchierato in cui offre le sue scuse per quello che considera “il peccato originale del Web”: il modello di business fondato sull’online advertising.

Anticipando Zuboff, Zuckerman dice: “Una volta che assumiamo che sia la pubblicità il modello di business di default per finanziare Internet, il passo successivo è ovvio: abbiamo bisogno di più dati per far apparire i nostri annunci personalizzati più efficaci […]. Per questo motivo costruiamo aziende che promettono agli investitori che l’advertising sarà ancora più invasivo, onnipresente e personalizzato, e che raccoglieremo sempre più dati sugli utenti e sui loro comportamenti”.

Zuckerman individua uno dei motivi del fallimento su Internet dei modelli di business alternativi all’advertising nell’assenza di infrastrutture adeguate a effettuare pagamenti sul web.

Questo senz’altro avrà giocato un suo ruolo, ma per quanto l’autocritica di Zuckerman possa essere apprezzabile e il mea culpa sincero, dopo aver passato in rassegna duecento anni di contenuti finanziati dalla pubblicità la questione sembrerebbe ben più complessa, e sorge il sospetto che Internet avrebbe potuto sperimentare un modello di business differente soltanto se alla base ci fosse stata una società radicalmente differente dal punto di vista culturale, ma anche finanziario.

Ci sono, infatti, fattori storici determinanti che, in concomitanza della diffusione del web, influenzano il mercato del capitale, creando un grande flusso di liquidi senza sbocchi soddisfacenti. Ed è questo che rende Internet, ancora largamente inesplorato, un ottimo candidato a diventare IL nuovo territorio di conquista e profitto (argomento che meriterà un approfondimento a parte).

Con tutti quei soldi in cerca di un obiettivo stimolante si capisce meglio la forte spinta alla monetizzazione che investe Internet dagli anni ’90 in poi. La scelta del modello di business dell’advertising, più che un errore o un “peccato originale”, sembra essere stata semplicemente la più logica, dal momento che quel modello aveva già ampiamente dimostrato il proprio successo in altri campi.

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